VISIONI E NON SOLO VEDUTE. Le sue non sono semplicemente vedute della città, ma autentiche visioni. Perché presentano delle immagini inattese attraverso prospettive impossibili di Vicenza: mettono insieme quello che l’occhio umano da solo non riuscirebbe a vedere. Ne esce un’immagine deformata della città, una realtà aumentata come si definisce oggi il prodotto fra informatica e reale. Perché, duecento anni prima del bit, è esattamente quello che fa lui: va oltre i confini della rappresentazione conosciuta e aumenta la realtà. Le incisioni di Cristoforo Dall’Acqua diventano così l’anatomia di una città sognata, non solo la descrizione di quella Vicenza, la sua, che esisteva nel Settecento. C’è un’anima nelle sue vedute, che, a saperla leggere, racconta parecchio anche del carattere della città. L’anima che le agita, a ben guardare, è la stessa caratteristica che si riscontra nelle vedute di Vicenza di Neri Pozza: “Come in Giotto e Cezanne quando la veduta si diventa visione si capisce la differenza tra illustratore e artista”. Lo spiegava a proposito di Pozza un trentacinquenne Vittorio Sgarbi, che firma nel 1987 la prefazione al catalogo delle sue incisioni: l’aveva scelto proprio Pozza, che aveva intravisto in quel giovane delle qualità rare. La diagnosi di Sgarbi diventa vera anche a proposito di Dall’Acqua: la sua città ha un’anima, la sua veduta diventa visione. C’è un filo rosso, quindi, che collega i due autori distanti quasi 200 anni – e sono gli unici due che realizzano questa impresa – mentre un terzo collega, Marco Moro, che pure racconta la Vicenza dell’Ottocento, ha un’impostazione differente: Moro, infatti, disegna singoli palazzi, propone gemme architettoniche, ma non offre una veduta della città. Tantomeno una visione.

LA MOSTRA. A palazzo Cordellina in contrà Riale a Vicenza, fino al 23 giugno, nella sede d’onore della Bertoliana è allestita la prima mostra scientifica di ampio respiro su Cristoforo Dall’Acqua. Si tratta di un’esposizione di alto livello, sia per i contenuti e sia per l’eleganza dell’allestimento. Intitolata “Vicenza in scena. Realtà e visione nelle vedute di Cristoforo Dall’Acqua”, è curata da Laura Sbicego e da Chiara Bombardini, funzionaria della biblioteca la prima, studiosa dell’artista la seconda al punto da dedicargli un “phd” all’università. Incisioni, libri, dipinti raccontano la vita – non sempre facile – di questo artista, tanto noto a Vicenza (le riproduzioni delle sue incisioni si trovano dappertutto, anche nei bar) quanto finora poco esplorato e conosciuto. E’ la prima mostra della presidenza di Chiara Visentin alla Bertoliana. Come si dice: se il buongiorno si vede dal mattino…

L’UOMO E L’ARTISTA DAL CARATTERE FOCOSO.  Tutto attorno a lui odora di mistero. E anche di sfortuna, compresa la morte. Cristoforo Dall’Acqua (1734-1787) vive nel Settecento veneziano di Canaletto, che ha 33 anni più di lui, di Antonio Vivaldi, che muore sette anni dopo la sua nascita, di Carlo Goldoni e di Giacomo Casanova, che ha solo nove anni più di lui. Il padre Valentino è pittore, lo zio Giandomenico è perito: disegna la pianta di Vicenza del 1711, e molte sue opere saranno utili al nipote per le sue incisioni. Cristoforo nasce il primo aprile del 1734: è figlio d’arte, la sua casa-bottega si trova tra Santa Croce e i Carmini. A diciannove anni, nel 1753, produce la prima stampa artistica per l’editore Conzatti di Padova. Fra il 1757 e il 1764, cioè tra i 23 e i 29 anni, collabora con i Remondini di Bassano, celebri mercanti d’arte che arrivarono sino in Russia. Loro gli mandavano a Vicenza i disegni, specie di Antonio Novelli, e lui li trasformava in incisioni. Non avrà mai un rapporto facile (nè felice) con i Remondini. La corrispondenza testimonia solenni arrabbiature dell’artista con l’editore: l’uno voleva essere pagato di più, l’altro cercava di risparmiare. Aveva un carattere fumino, il Nostro. Anni dopo, nella sua maturità, se la prende anche con Ottavio Bertotti Scamozzi, che l’aveva ingaggiato per illustrare il suo Forestiere istruito. Consapevole del suo valore, Dall’Acqua chiedeva più soldi per il suo lavoro, ma il vecchio architetto se ne domandava il motivo: “Che cosa mai dovesse fare dei quattrini Dall’Acqua – si chiedeva – visto che Vicenza non era Venezia e i motivi di divertimento erano scarsi?”. Insomma, i due litigano e il rapporto si interrompe. I soldi furono un suo problema costante: anche se proveniva da una famiglia non indigente, i quattrini rappresentavano un assillo: in una lettera spiega chiaramente che non ha i soldi per pagare l’affitto. Nella foto accanto, Cristoforo Dall’Acqua in un ritratto di Felice Boscarati. 

INTERPRETE DEL BAROCCO. Cosa succedeva a Vicenza nel Settecento? La città, che aveva 28mila abitanti, era caratterizzata dall’esplosione edilizia e dall’irrompere del barocco in architettura. Nasce per esempio il quartiere di porta Nova, Francesco Muttoni disegna palazzo Velo in contrà Cantarane, di fronte al quale sorgerà nel 1748 palazzo Vecchia. Lo stesso Muttoni progetta i portici di Monte Berico: questa nuova architettura è una rottura con il passato, perché i portici rappresentano un nuovo modo di agganciare la Basilica e Campo Marzo al santuario. Non si passa più per le Scalette, i visitatori hanno a disposizione un percorso diverso. Insomma, nella città si respira aria nuova. E, infatti, uno dei soggetti delle vedute di Dall’Acqua saranno proprio i Portici di Monte Berico. Più in generale, lui diventerà un’espressione del barocco, ossia dell’architettura della borghesia, nuova classe sociale emergente. Qui sopra, una veduta di piazza dei Signori a Vicenza. 

 

VEDUTE E PROSPETTIVE IMPOSSIBILI, COME DE CHIRICO. Dall’Acqua produce molto, soprattutto per l’editoria. Lo testimoniano i molti libri presenti nella mostra. Lavora anche per i massoni, come Antonio Turra a Vicenza (marito di Elisabetta Caminer), segretario dell’Accademia dell’Agricoltura, e per il veronese Lazzaro Riviera. Anzi, il ritratto di Dall’Acqua più famoso, presente nella mostra, è dipinto da Felice Boscarati, pittore veronese che pagò a caro prezzo i suoi rapporti con Riviera e la massoneria. Che invece riuscì a proteggere Dall’Acqua.

Le opere più note dell’incisore vicentino, comunque, restano le vedute della città. Che esprimono, a guardarle, una sensazione di disorientamento, perfino una leggera nausea, come quella che assaliva molti da bambini in gita in corriera lungo i tornanti. Come mai? È una questione di equilibrio. Nelle sue incisioni, infatti, non c’è una sola prospettiva e un unico punto di fuga in cui si concentrano tutte le linee, ma ci sono diverse prospettive e altrettanti punti di fuga. In altre parole, Dall’Acqua mette insieme in un solo disegno vari pezzi, come fossero tante fotografie unite una con l’altra per mostrare un panorama completo. In questo modo ottiene ampiezze e profondità irreali: l’occhio umano, infatti, ha un campo visivo di 30-40 gradi, il grandangolo della macchina fotografica amplia lo sguardo a 135 gradi mentre le prospettive di Dall’Acqua arrivano a 180 gradi. L’esempio dell’incisione di San Biagio è indicativo: in quel disegno, partendo da contrà Pedemuro san Biagio l’incisore riesce a far vedere sulla sinistra la chiesa di San Marco, che in realtà è invisibile a occhio nudo, mentre in fondo fa risaltare la chiesa di Araceli, lontana 850 metri, che pure in una visione normale resterebbe nascosta. “È una scomposizione dei piani che se non arriva agli effetti di un Picasso – spiega Laura Sbicego – può ricordare lo stile dei quadri metafisici di Giorgio De Chirico. Nell’immagine qui sopra, si notano bene le diverse prospettive che convivono. Inoltre, corso Palladio è “addomesticato” dall’artista, perché mostra quello che vuole lui: la chiesa di San Gaetano in realtà non è visibili dall’inizio della strada. Che è oltretutto assai più larga della realtà. 

DALL’ACQUA ERA UN IMPRENDITORE. Nei suoi disegni, Dall’Acqua porta in primo piano architetture lontane; nelle sue prospettive mette in risalto palazzi che resterebbero nascosti, oppure li avvicina all’osservatore utilizzando un suo effetto zoom molto personale. Perché si comporta così? La sua è un’interpretazione creativa dei paesaggi: lui non utilizza la camera ottica come Canaletto, che sfrutta questo strumento per ottenere una riproduzione assolutamente fedele all’originale. Dall’Acqua avvicinava i palazzi che gli interessano, espande l’ottica, sbalza le prospettive anziché allinearle. Da dove nasce questa esigenza? Dal desiderio, anzi dalla necessità, di compiacere i suoi committenti, tra i quali ci fu anche la stessa città di Vicenza. Quando si apprestava a realizzare una serie di vedute, infatti, contattava i possibili acquirenti, cioè le famiglie nobili della città, che andavano a costituire una sorta di suo azionariato diffuso. Loro si impegnavano ad acquistare le opere, e lui ricambiava citando il loro palazzo nella legenda dell’incisione. Così lui si finanziava e contemporaneamente legava alla storia il nome degli acquirenti, solleticando la loro vanità. Nell’incisione qui sopra, come anche nelle altre, si leggono distintamente i nomi delle famiglie e dei loro palazzi indicati nella legenda e richiamati con numeri nel disegno.

LE MACCHIETTE. Le vedute della città, che mettono sempre al centro una piazza, sono arricchite da molti elementi popolari. Sono le macchiette, che esprimono sprazzi di vita quotidiana vicentina: il teatrino, i poveri, gli storpi, la brigata goliardica, i giocolieri, i saltimbanchi, il cane e così via. A dire la verità, oltre a dare vivacità al lavoro questi piccoli disegni servivano anche a coprire gli errori della prospettiva.

UNA MORTE MISTERIOSA. La vita privata di Cristoforo Dall’Acqua fu tutt’altro che felice. Ha tre figli, ma due muoiono in tenera età: il terzo figlio, Giuseppe Dall’Acqua (1760-1810) proseguendo sulla tradizione artistica della famiglia diventerà anche lui incisore. Sarò nominato anche bidello dell’Accademia Olimpica, vale a dire tesoriere. Ma sarà anche espulso dalla stessa Accademia perché si impossessò di somme di denaro che doveva custodire. Insomma, aveva rubato. Scappò a Milano, ma non trovò migliore fortuna: morì suicida, il corpo fu trovato nel Naviglio.

Lo stesso Cristoforo Dall’Acqua morì in circostanze poco chiare e sempre per questioni di soldi. Si ipotizza che morì avvelenato dal barone Giulio Ferrari, o, più probabilmente, morì di crepacuore (quella che oggi i medici chiamano malattia di Tako-Tsubo). Sostanzialmente rimase vittima di un collasso cardiaco, causato dalla paura di ritorsioni da parte del barone per un debito che doveva onorare. Dall’Acqua fu due volte sfortunato. Prima di tutto perché la medicina oggi ha appurato che di crepacuore muoiono quasi esclusivamente le donne, in secondo luogo perché Dall’Acqua aveva intrattenuto rapporti con un personaggio davvero losco e sanguinario. Il barone Ferrari aveva scritto un libro di poesie dedicate a Laura Zusto, nobildonna veneziana moglie di Pietro Vettore Pisani, della celebre famiglia che a Bagnolo di Lonigo, fra l’altro, si era fatta costruire una villa di campagna su progetto di Andrea Palladio. Giulio Ferrari non doveva essere Petrarca a scrivere sonetti, perché suo fratello ne criticò le liriche dedicate alla Zusto: il che fece infuriare Giulio al punto tale che lo uccise sotto gli occhi della madre di entrambi. Erano tempi in cui era normale essere nobili e anche assassini sanguinari.

Chissà quali furono i reali rapporti fra Dall’Acqua e Giulio Ferrari: sicuramente complicati. Chissà per quale motivo l’artista aveva avuto bisogno dei soldi che poi non riuscì a restituire. Certo che di fronte a un personaggio di quella pasta, omicida e impunito, il terrore era giustificato. Metteteci anche un cuore debole, e la vita dell’incisore se ne andò a 53 anni, due anni prima della rivoluzione francese. Lui, la sua rivoluzione l’aveva già realizzata. Qui sotto, un particolare impossibile della chiesa di Araceli nella veduta dalla chiesa di san Biagio. In basso, un’altra scena di vita quotidiana di cui sono ricche le incisioni di Dall’Acqua.