Lo stemma di famiglia con tre rose, simbolo della casata da sette secoli, è riportato nel logo aziendale. Del resto, è motivo d’orgoglio essere i discendenti e portare lo stesso cognome del grande navigatore Antonio Pigafetta, che iniziò il primo viaggio intorno al mondo nell’agosto del 1519 con Ferdinando Magellano, 240 marinai imbarcati su cinque navi e ritornò a Siviglia tre anni dopo senza il capitano, con diciotto uomini e una nave sola. Lui, imbarcatosi grazie a una raccomandazione dell’ambasciatore Francesco Chiericati, pure lui vicentino, a Madrid a rappresentare il papa, e del sovrano spagnolo, aveva fatto molto di più di quanto i suoi compiti di scrivano gli imponessero: aveva realizzato un’impresa straordinaria che avrebbe aperto nuovi orizzonti, prima di tutto al commercio.

A 500 anni di distanza da quell’impresa, il nome rivive grazie ai gemelli Andrea e Roberto Pigafetta, 42 anni, che a Rovolon mandano avanti l’azienda agricola intitolata al papà: Guido Pigafetta & figli. Siamo nei colli Euganei, in provincia di Padova, appena al di là del confine con Vicenza. Qui venne ad abitare cento anni fa il nonno Pigafetta, trasferendosi da Vicenza nella casa della moglie. E qui per tre generazioni la famiglia ha vissuto. Dell’antica nobiltà è rimasto il titolo di conte agli attuali proprietari e tre ettari coltivati a vigneto: i Pigafetta producono 10mila bottiglie fra cabernet, serprino (vino ottenuto dall’uva che porta lo stesso nome: è la progenitrice della Glera, si coltiva solo nel Padovano e dà un vino frizzante) e poi sauvignon, merlot, rosé fino al prodotto top dell’azienda che è “Il vino del navigatore” per celebrare l’illustre antenato.

L’interessante “vino del navigatore” prodotto dall’azienda dei conti Pigafetta a Rovolon, nel Padovano

Prodotto in duemila bottiglie, con affinamento di quattro anni, è un uvaggio di merlot (50%) cabernet franc (25%) e carmenere (25%). Ne risulta un rosso importante, adatto a piatti di carne, brasati e selvaggina: la morbidezza del merlot che addolcisce l’incisività degli altri due vini. Il risultato è di grande interesse: ormai l’annata 2014 è quasi terminata ed è pronta l’annata 2015.

Sull’etichetta è riportato il volto di Antonio Pigafetta e alcune righe autografe della sua Relazione del primo viaggio attorno al mondo che gli provocò molti più guai che onori. Certo, gli armatori dell’impresa si ripagarono l’investimento, ma il libro scritto da Pigafetta e presentato al re Carlo V sparì presto dalla circolazione. Il sovrano spagnolo (è quello rimasto famoso perché, grazie a Magellano che mise piede nelle Filippine, “sul suo impero non tramontava mai il sole”) preferì si dimenticasse che il valore dell’impresa fosse da attribuire a un portoghese e un italiano, anzi lombardo come era chiamato Pigafetta. Meglio perfino dimenticare che fosse veneto della “Serenissima Repubblica” la cui capitale Venezia, 150 mila abitanti, era una potenza economica e importante al tempo come oggi New York.

Il suo libro Pigafetta riuscì a pubblicarlo solo nel 1524, nella tollerante Venezia, sotto il doge Andrea Gritti, il quale prima di diventare politico era stato un ricchissimo commerciante (di granaglie) in Turchia. Gritti abitava a Pera di Costantinopoli, la parte italiana della capitale, nata grazie all’impulso dei genovesi, e viveva con una donna turca che gli aveva dato quattro figli naturali. Ma torniamo a Pigafetta e al suo libro, il quale parla poco dell’impresa nautica, che costò anche un ammutinamento dell’equipaggio, e invece descrive in tutti i particolari i cibi e le spezie che aveva incontrato nel suo viaggio. Il motivo è intuibile: la Relazione doveva invogliare altri imprenditori a intraprendere commerci con il Nuovo Mondo. E di questi commercianti lui, naturalmente, sarebbe stato il consulente, l’uomo davvero indispensabile perché l’unico a conoscere la via delle spezie.

Il conte Andrea Pigafetta, ultimo discendente assieme al fratello gemello Roberto del navigatore e produttore del vino.

Ma il destino aveva scritto una pagina diversa per il navigatore, le cui tracce spariscono dopo la pubblicazione del libro. La morte è indicata, con incertezza, nel 1534. Di sicuro, come ha accertato Adriana Chemello, l’ultimo documento che ne attesta l’esistenza è datato 3 ottobre 1524, quando gli viene assegnata la commenda di Norcia, Todi e Arquata. Dopo quella data le sue tracce si perdono nel nulla. Un testamento del padre Giovanni Pigafetta, redatto il 28 giugno 1525, detta alcune condizioni a suo favore, se «velit stare et habitare in patria sua». In un altro testamento del 17 luglio 1532, Antonio non viene neppure nominato. Destino assai strano per chi, nell’intestazione del libro, si fregia anche del titolo di Cavaliere di Rodi. Che, al tempo, non era un’appartenenza da poco.

Una spiegazione la fornisce, purtroppo senza approfondire, Giovanni Mantese, che si riallaccia alle idee riformatrici di Lutero che si diffondono anche nelle classi aristocratiche di Vicenza. Tra le famiglie più coinvolte nell’adesione alla Riforma, oltre ai da Porto, i Trento, i Trissino, i Capra, c’erano soprattutto i Thiene e i Pigafetta, esempi della “dilagante nuova ideologia religiosa”. Perché il padre Giovanni né la madre Angela ricordano nei testamenti il nome di Antonio, che doveva essere già a quel tempo celebre? L’ipotesi è che sia stato vittima di una damnatio memoriae da parte della stessa famiglia a causa delle sue idee filo-luterane. Del resto, anche la terribile vicenda di Angelica Pigafetta processata dall’Inquisizione, scappata da Vicenza per sfuggire al processo (e alla condanna) e che poi morirà nel Grigioni in Svizzera, depone a favore di un pesante coinvolgimento della famiglia nella diffusione della Riforma.

Oltre al vino, a ricordare Pigafetta sotto l’aspetto enogastronomico c’è anche la sopressa del navigatore. È prodotta da Federico Pagliarin, 65 anni, titolare dell’azienda biologica Alla Melia a Lovertino di Albettone, nel Basso Vicentino. Anche lui utilizza uno stemma, questa volta dei Pigafetta foglia d’oro, perché i suoi terreni rappresentano un’antica proprietà della famiglia, almeno di quel ramo che dal 1231 aveva tre rose d’oro come simbolo. La sua sopressa, che è inutile anche cercare in commercio perché è prodotta in pochissimi pezzi, è composta da filetto di maiale, coppa e pancetta tagliata al coltello, quindi non macinata; è insaporita con il vino del navigatore, chiodi di garofano e cannella. Per il 50% è utilizzata anche la pasta del salame.

Sulla facciata di casa Pigafetta a Vicenza c’è un’iscrizione secolare che recita: “Non c’è rosa senza spine”. Purtroppo, anche se nello stemma le rose non presentano aghi che pungono, quelle spine gli esponenti della famiglia, da Antonio ad Angelica, le hanno trovate. E pure tante.

 

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