Andrea Libondi, già caporedattore de “Il Giornale di Vicenza”, grande penna soprattutto quando racconta di sport, in questo articolo ricorda Ezio Vendrame, scomparso ieri, calciatore degli anni Settanta che lui ha conosciuto bene e che ha visto in azione, dentro e fuori dal campo. Vendrame è stato un mito per i tifosi del Lanerossi Vicenza degli anni Settanta, il cui ricordo è rimasto incancellato fino ad oggi, lungo quasi mezzo secolo. Celebre la sua pantomima in campo, di cui Andrea è stato testimone, con i piedi sul pallone e lui a scrutare l’orizzonte. Un gesto talmente famoso che è finito per diventare anche la bandiera di un gruppo di tifosi vicentini.

In tanti l’hanno avvicinato a George Best, il piccoletto inglese tanto genio e altrettanta sregolatezza. C’è chi s’è spinto parlando di lui (copyright addirittura Giampiero Boniperti) come di novello Mario Kempes, il funambolo dell’Argentina campione del mondo nell’anno di grazia 1978. Conoscendolo – e per un certo periodo l’ho conosciuto, ai tempi della militanza nel Vicenza – si può star certi che un paragone e pure l’altro lo facessero sorridere, in qualche modo magari inorgoglire, però non gli facevano certo giustizia. Perché Ezio Vendrame era unico nel suo genere, un uomo prima ancora che un calciatore che adorava vivere in libertà, fuori dalle regole che non fossero quelle della legge. Un personaggio speciale che non si poteva non amare anche se gli allenatori che ha avuto in sorte e parecchi dei suoi compagni di squadra con cui ha condiviso il percorso nel mondo del pallone probabilmente la pensavano diversamente. Eppure i tifosi lo adoravano proprio per quel suo modo di essere, l’imprevedibilità era nelle sue corde, non sapevi mai cosa avrebbe estratto dal suo cilindro, quale magia avrebbe mandato in scena con i suoi piedi.

Friulano di Casarsa della Delizia, una tristissima esperienza in orfanotrofio quand’era un bimbo di 6 anni, cresciuto calcisticamente nell’Udinese dopo che il medico del club bianconero l’aveva visto far furori in qualche partitella estiva quando di anni ne aveva appena 13, a Vicenza era arrivato dal Rovereto dopo che era già transitato per Ferrara, Sassari e Siena, facendosi apprezzare puntualmente dai tifosi e anche dalle….ragazze (probabilmente la sua vera grande passione),  parecchio meno da allenatori e dirigenti. A scommettere su di lui in ottica biancorossa fu Gianni Ballico, che lo suggerì a Giussy Farina. Era l’annata 1971-72. Ed è a Vicenza che Vendrame ha vissuto i suoi maggiori momenti di gloria, con 3 stagioni contrassegnate da una cinquantina di presenze ed un gol, a Verona. Un periodo vissuto in altalena, come si conviene ad un personaggio del suo calibro, la mediocrità e le mezze misure non erano cose sue, o tutto o niente. Ecco allora meritare il 10 in pagella da Giorgio Lago sul Gazzettino e qualche giornata dopo venire accreditato di un altrettanto rumoroso 0 da Gianmauro Anni sul Giornale di Vicenza. Straordinaria, tra le altre, una sua performance in una partita in notturna al Menti per la Mitropa Cup quando passeggiò letteralmente per alcuni metri sul pallone con la mano tesa sulla fronte a mò di saluto, col pubblico impazzito per la sorpresa e insieme per la felicità.

Passato al Napoli per volere di Luis Vinicio, fece soprattutto panchina ma alle partitelle di metà settimana accorrevano in migliaia per godere delle sue prelibatezze. Una volta arresosi ad un calcio in cui si sentiva sempre più estraneo, ha provato ad allenare (“Ma l’ideale – una delle sue frasi celebri – sarebbe avere a che fare con giocatori orfani, perché i genitori sono tutti dei gran rompi…”) ma soprattutto s’è dedicato alla scrittura – una decina di pubblicazioni al suo attivo, la più famosa “Se mi mandi in tribuna godo” che è tutto un programma – ed alla pittura. IL suo libro fu presentato addirittura all’università di Padova, poco meno di vent’anni fa, per iniziativa del prorettore di allora, il vicentino Lorenzo Bernardi.

Vendrame se l’è portato via un tumore, con cui battagliava da anni. Ha provato ad essere irriverente ed ironico anche con la malattia, ma lì non ce l’ha fatta ad andare controcorrente.