Come nascono i nomi dei luoghi? Da chi ci abita. E da chi fraintende. I segreti dei cartografi di secoli fa sono facili da svelare, almeno per chi studia. Il monte Somenga nelle Alpi Orobiche nasce da un topografo sabaudo nel corso della prima levata dell’Igm a fine Ottocento, che chiede in giro come si chiama quella montagna vicina “So minga”, gli rispondono in dialetto bresciano. Che vuol dire “non lo so”. Ma intanto il diligente tecnico del tempo prende nota e battezza il monte, inconsapevole del significato. E anche oggi lo chiamiamo così.

        Il monte Somenga e il golfo dei falsi Aranci. E quando un suo collega di fine Settecento si ritrova nella campagna di Venezia, a Rio San Martino, al confine con Treviso, celebre oggi per il radicchio e per i ristoranti di pesce, e rivolge la stesa domanda agli indigeni si sente rispondere: “A Rio”. Che diventa Ario nelle carte topografiche.     

Il caso più curioso riguarda però il golfo degli Aranci in Sardegna. Stessa curiosità (“come si chiama questo posto?”) e pronta gli arriva la risposta: “Li ranci”. Che vuol dire: “I granchi”. Giustamente, perché le spiagge candide e il mare limpido della Costa Smeralda nascondono una varietà di crostacei straordinaria. Siccome però vale la regola che omen nomen e siccome il sardo è una lingua e non un dialetto (come ricordano sempre I sardi di Aldo, Giovanni e Giacomo) la translitterazione del dialetto si trasforma in un sogno di aranceti che affascina tutti i turisti anche oggi, a partire dall’Aga Khan che si gode il blu di Sardegna dal suo yacht alla fonda davanti a Portorotondo. E nessuno si domanda perché non crescano gli aranci in provincia di Sassari.

Questi tre sono gli aneddoti più gustosi raccontati a Vicenza dal professor Massimo Rossi, docente universitario e geografo della Fondazione Benetton a un convegno affollato (e distanziato) organizzato dalla Biblioteca Bertoliana che ha segnato la riapertura post-Covid delle attività. Accanto, il professor Rossi nella foto di Alessandro Meggiolan.

      La carta austriaca di 200 anni fa. L’occasione dell’incontro è stata la presentazione della Kriegskarte, prodotta tra il 1798 e il 1805 dall’imperial regio governo, da poco orfano della grande Maria Teresa, con scopi militari e intento scientifico. Adesso è stata rieditata grazie alla Fondazione Benetton: il lavoro è costato tre anni di ricerche e due di approfondimento. Cinque anni di “studio matto e disperatissimo”, per citare il sommo Giacomo, per riproporre quella “fotografia” delle Tre Venezie (loro lo chiamavano Il ducato di Venezia) realizzata dal generale Anton von Zach, finito prigioniero di Napoleone a Marengo nel 1800, che oggi è disponibile per trecento euro. Una sciocchezza per il tesoro di informazioni che contiene. Fu stata realizzata da tecnici di diciotto anni: entravano. Entravano a Vienna in collegio a 11 anni e ne uscivano sette anni dopo. E producevano queste meraviglie. Già, perché le mappe antiche possiedono moltissime più notizie delle pronipoti asettiche di oggi. E sono utili per i professionisti del terzo millennio. La Kriegskarte è una carta topografica di circa 43 metri quadrati, suddivisi in 220 tavolette che coprono 12 chilometri per 18 (le tavole dell’Istituto Geografico Militare descrivono uno spazio di 9 per 10 chilometri). La scala è di 1:28.800, dimensione che oggi non interessa più a nessuno. Si passa dalla scala di 1:5.000 a quella di 1:10.000. Troppo piccole o troppo grandi. Manca la visione d’insieme, quella che interessava all’Austria. E fosse solo quello: le carte del Veneto e della Lombardia attuali neanche combaciano nella scala (oggi, mica nel 2000 avanti Cristo), in quella del Veneto neanche esiste il confinante Friuli: ci potrebbero scrivere hic sunt leones. Senza parlare degli errori macroscopici che si ritrovano nelle carte di oggi rispetto al passato.  Qui sopra, un’immagine relativa a Vicenza dalla Kriegskart

          160mila carte da riscoprire e valorizzare. Eppure queste carte antiche, a torto sottovalutate, sarebbero importanti. Mica per gli storici e i professori, ma proprio per geometri, architetti e ingegneri che devono creare progetti. Perché contengono una quantità di informazioni che neanche immaginiamo. A guardare la Kriegskarte, troviamo disegnata perfino l’ombra degli alberi, ma non è un vezzo pittorico. È scientificità neanche d’antan. “Le carte di oggi sono asettiche. Fino al 1950 lo stesso Igm aveva una sezione artistica per definire i particolari – spiega il professore – Sembra un paradosso, ma più andiamo avanti nel tempo e meno particolari troviamo. Il medico Oliver Sacks scrisse un libro L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello disegnando i confini dell’agnosia, malattia di cui soffriamo tutti oggi. Vuol dire che non riconosciamo più gli oggetti nè a cosa servono. Tantomeno, quindi, li riproduciamo nelle carte. Del resto, al paesaggio neanche badiamo più: seguiamo il navigatore in auto e non guardiamo fuori dal finestrino”.

Nel Veneto, spiega il professor Rossi, esistono 160mila carte storiche a stampa, disperse tra biblioteche e fondazioni, di cui la metà non sono neanche inventariate. È il territorio veneto che parla, inascoltato, prima della sua devastazione recente. “Con il Progetto Atlante stiamo cercando di dare ordine a questo materiale. Sono andato anche a parlare all’assessore regionale Corazzari che s’è mostrato disponibile. Speriamo. Intanto il massimo che vediamo arrivare sono 10mila euro, niente. Con quei soldi fatichiamo anche a pagare un ricercatore per un anno”. Per realizzare l’edizione della Kriegskarte hanno lavorato per anni due traduttrici, tanto per far capire di cosa si sta parlando. “L’ultima carta realizzata è del 2003 – conclude il professore – ma è asettica. Perché segue ancora la logica militare come quella dell’Igm. Non ce n’è bisogno”. Servono risorse ma soprattutto l’intelligenza di capire: “Invece quando si parla di tagli – frusta il professore – il primo settore che si colpisce è proprio quello della cultura. La Fondazione Benetton va nel senso opposto: abbiamo realizzato il volume su Treviso Urbs Picta, un’impresa gigantesca, e lo abbiamo venduto a venti euro. Per scelta, ma vale molto di più”.