I fratelli Pierluigi e Nicola Portinari: da garzoni nella bottega di papà Serafino a un locale che in trent’anni ha ottenuto due stelle Michelin ed è lanciato, per la qualità della sua proposta, verso la terza

 

TRA PAVESE E I CACCIATORI. “Mi chiamavano Pablo perché suonavo la chitarra”. Un’immagine, un ricordo, un nome. È l’inizio di un celebre romanzo di Cesare Pavese, Il compagno. È la storia di un giovane trendy, come lo chiameremmo oggi, tutto auto e donne, che scopre il valore di spendersi per il prossimo. Ma è interessante quella frase dell’incipit, perché con pochissime parole la memoria dello scrittore fotografa l’attualità. Succede quasi senza rendersene conto, per intuizione, perché la sentinella delle nostre emozioni sta sempre all’erta.

Quando nel 1987 aprono il loro locale, Pierluigi e Nicola Portinari, allora di 26 e 22 anni, applicano lo stesso metodo. Hanno scavato nella storia del luogo, grazie a Egidio Mazzadi, memorialista locale, e scoprono scoperto che quella collina era la contrà delle peche, percorsa dai ladri di polli che lasciavano le loro impronte sulle strade che si perdevano nei boschetti vicini. Il nome del locale non poteva essere diverso, se voleva essere fedele al luogo e alla loro storia. Perché anche loro amavano da bambini lasciare per gioco le impronte, le peche, sul tavolo di casa, ricevendo naturalmente i rimbrotti della mamma. Nasce così La Peca e il suo simbolo diventa l’impronta della mano. Quella mano che è la seconda artefice della cucina, dopo il cervello. Ma c’è anche un altro significato: quando il territorio diventa un appellativo, una denominazione, come accade nel vino per il Bordeaux e il Franciacorta, il gioco mentale è completo, l’identificazione (della qualità) resta incollata alla memoria per sempre.

 

Bigoli integrali con acciughe, alici marinate e gelato di cipolle: un piatto storico della Peca, impossibile da togliere dalla carta

LA LEZIONE DEI GRANDI. Pierluigi e Nicola hanno lavorato di sintesi e semplicità: del resto, proprio sintesi e semplicità sono le due parole d’ordine che Gualtiero Marchesi, cuoco ma soprattutto appassionato d’arte e di musica, raccomanda sempre di seguire. Racconta che quando creò nel 1977 il suo rivoluzionario risotto all’oro aveva in mente la lezione di Henry de Toulouse Lautrec, che era un conte prima di essere un pittore. Portò con i suoi quadri uno sguardo psicologico e sociale fortemente innovativo nella pittura, perché spesso i suoi soggetti erano impensabili al tempo. E identificava la raffinatezza proprio in queste due qualità, sintesi e semplicità, binomio efficace che riesce anche a svecchiare la tradizione. Oggi le stesse parole sono pronunciate da un altro grande, Arrigo Cipriani, l’uomo che ha portato il made in Italy gastronomico nel mondo. Secondo Cipriani, il lusso non è altro che un insieme di “dettagli di semplicità”, che fanno crescere la qualità delle portate e del servizio.

Probabilmente i due giovani Portinari, che allora erano preoccupati molto più dai due mutui contratti con le banche, pur avendo intuito che la strada da percorrere era segnata da queste due parole non si rendevano conto che quell’appellativo – la Peca – avrebbe segnato la loro storia e anche un pezzo della storia gastronomica (non solo) del Veneto. Ma funziona così, ha sempre funzionato in questo modo: guardare al passato, al proprio vissuto, è il modo migliore per disegnare il futuro. Che non vuol dire camminare con la testa voltata all’indietro, anzi. Significa vivere il proprio tempo, ma costruire il domani riempiendolo di quei contenuti e valori che la tradizione ci ha tramandato, aggiornandoli con un linguaggio nuovo, adatto alla nostra cultura. Seguire questa direzione è una questione di intelligenza e comunicazione, vale a dire intelligenza nel cercare e capacità di trasmettere agli altri: altre due parole che rappresentano uno snodo neurale nevralgico, di cui spesso non ci si rende conto. Perché nessuno si siede oggi a tavola per mangiare come cento anni fa e nessuno verserebbe nel bicchiere i vini di un secolo fa. Sono cambiati i gusti, ossia il clima che respiriamo. La gastronomia è cultura, non lo si spiegherà mai abbastanza, e la si esprime nel modo più vivo e immediato nel piatto piuttosto di quanto racconti un reperto sotto la teca di un museo.

 

Cinzia Boggian, al ristoranre dal 1992, è la creatrice degli ironici centrotavola che adornano il locale. Dal 2010 ne ha prodotti seicento.

 

ELEGANZA E TRADIZIONE, INTELLIGENZA E COMUNICAZIONE. Molti piatti dei fratelli Portinari, ormai diventati dei classici, trasmettono esattamente questa sensazione, un mix di eleganza e tradizione ricca di significati aggiornati alla contemporaneità. Il risultato è la piacevolezza di una felice scoperta inattesa, quella che gli americani chiamano serendipity. È sempre una scoperta assaggiare anche oggi il tortino di baccalà con fonduta di Asiago e acciughe oppure i garganelli con astice, porcini e tartufo nero, la braciola di cervo imbottita di fegato grasso, o la torta sabbiosa, piatti che fanno parte delle creazioni di fine Ottanta o inizio Novanta. Siamo negli anni in cui la cucina vive una sua stagione di opulenza, in parallelo a una società che si sente risuscitata, finalmente lontana dalla crisi politica degli anni di piombo e da quella economica che ha segnato il Paese, con l’inflazione a due zeri e l’austerity energetica. Il Paese è orgoglioso del suo nuovo benessere: La nave va è il titolo di un film Federico Fellini, mentre Edoardo Bennato canta Ok Italia. La Milano da bere è una filosofia di vita e non solo uno spot, le Vacanze di Natale inaugurano i cinepanettoni, la colonna sonora dei giovani è la musica dei Duran Duran e degli Spandau Ballet. Gli italiani si sentono tutti finanzieri e sognano puntando in Borsa: chi non può, gioca su Repubblica con Portfolio sperando di diventare miliardario. Se questo è il clima, si capisce perché a tavola trionfano la panna, i budini, la maionese, le pennette alla wodka, i tortellini panna, prosciutto e piselli, il risotto allo champagne e il carpaccio con rucola e grana. Le ricette sono impiastricciate, le porzioni gigantesche e i risultati spesso sono dei mapazzoni, per usare un termine reso celebre da Masterchef, di complessa digeribilità.

 

DISOBBEDIENTI DI VALORE. Nei piatti de La Peca si respira un’altra aria. C’è il desiderio di tentare strade nuove, contaminazioni impensate prima d’allora, abbinamenti magari azzardati, sempre però in un equilibrio di sapori che resta la cifra distintiva – da allora e per sempre – della loro cucina. All’origine per Nicola e Pierluigi c’è l’esperienza nella gastronomia di famiglia, una bottega che era capace di preparare, per esempio, settanta chili di baccalà alla settimana. Loro due erano teenager che avevano preferito l’università della vita alle lezioni in classe: l’uno a cucinare, l’altro dietro il bancone. E sì che, come maestro, il papà Serafino non era tenero. Il lavoro andava preso con serietà e abnegazione, sosteneva, e lo ribadiva prima di tutto con l’esempio. A cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, i ritardi non erano tollerati nella bottega di via Roma a Lonigo. Poteva volare un intero carré di maiale all’indirizzo del malcapitato per convincerlo alla puntualità.

E se il buon Serafino all’epoca era dubbioso sulla decisione dei figli di aprire un nuovo locale (è rimasto fedelissimo alla sua bottega che lascerà solo nel 2001, dopo cinquant’anni di lavoro) i due disobbedienti vanno diritti per la loro strada. Nonostante le perplessità, il papà non farà mancare loro il suo aiuto, né la mamma, che per anni preparerà le “basi” della cucina della giovane Peca. Mamma Irma, Bortolaso all’anagrafe, sarà anche la babysitter dei figli di Gigi, perché nel 1989 al ristorante arriva Cinzia Boggian, arredatrice di professione, che per amore cambierà due volte status: quello lavorativo e quello personale. Sposa Gigi nel 1993 – Nicola è coniugato dal 1988 con Giovanna Baldan – ma nel frattempo è due volte occupata: durante il giorno con il negozio a Montagnana e alla sera al ristorante, dove trascorre tre anni in cucina prima di spostarsi in sala. La sua dedizione alla causa di marito e cognato è totale: ricorda ancora oggi che ha lavorato sino a un’ora prima del parto e che è tornata al ristorante dopo una settimana.

 

La pasta aliena è un curioso piatto servito a Lonigo: si chiama così perché la pasta, speiga Nicola Portinari, assomiglia a dei piccoli dischi volanti.

 

CURIOSITA’ SENZA CONFORMISMO. I giovani Portinari sono determinati e creativi, ma nel senso che intende Piero Angela. Il celebre giornalista e ricercatore sostiene, infatti, che “la creatività è un modo di essere: è curiosità senza conformismo, è il non accontentarsi mai della prima risposta o di una sola risposta, ed è soprattutto la capacità di porsi continuamente domande”. Grazie a questo atteggiamento, la cucina di Nicola e Pierluigi (il quale comincia a interessarsi della pasticceria per aiutare il fratello, all’inizio sotto la sua guida, ma con il tempo diventa autonomo l’allievo supererà il maestro) con il passare del tempo si affina sempre di più. Merito di viaggi, di frequentazioni (primi fra tutti gli amici-colleghi Antonio Dal Lago e Daria Cerato del Casin del Gamba ad Altissimo, e dal Pescatore di Antonio e Nadia Santini, ma anche molti ristoranti francesi) ma soprattutto di letture, da classici come quello di Pellegrino Artusi sino ai libri di Alain Ducasse, i cui lavori al tempo erano già un must. Pensate che disdetta quando, vent’anni dopo, è proprio Alain Ducasse – in giro per il Veneto – a telefonare per prenotare un tavolo, e alla “Peca” gli devono rispondere: “Ci dispiace, il locale è chiuso. Riapriamo domani”. La fortuna è cieca, come si dice, ma la sfiga ci vede benissimo. Se peraltro un venerato maestro come Ducasse telefona a Lonigo significa che la fama dei fratelli Portinari è arrivata piuttosto lontano. E parecchio in alto.

Sono gli anni Novanta del boom delle videocassette, dei rivoluzionari walkman, dei telefonini che a guardarli adesso viene da sorridere, dei floppy disk e del Tamagotchi, del “codino” Roberto Baggio e dello sbarco di Internet nelle nostre vite. I giovani ascoltano le Spice girls, i Take That e i Backstreet boys; impazza Fiorello con il karaoke, i “cd” hanno ormai da tempo soppiantato i vinili; se ne vanno in silenzio Lucio Battisti e Fabrizio De Andrè, mentre il mondo emozionato versa lacrime per la morte di Lady Diana. Al cinema, Patrick Swayze e Demi Moore inneggiano all’amore immortale di Ghost, Tom Hanks in Forrest Gump corre instancabile e il Titanic di Leonardo Di Caprio naufraga inesorabilmente. La realtà, purtroppo, è peggiore dei film: sono anche gli anni Novanta della Guerra del Golfo, di Tangentopoli e delle stragi mafiose di Capaci e di Palermo. La politica è dominata da Bill Clinton, sassofonista per diletto e presidente Usa per mestiere, di cui resta memoria più per uno scandalo sessuale che per il decennio di benessere planetario che spinge l’economia alle stelle, portando il Nordest ad essere la locomotiva d’Italia. E di questa locomotiva il Veneto e Vicenza rappresentano la caldaia bollente.

Anche la cucina dimentica gli anni dell’edonismo reaganiano: ora si procede per sottrazione e non per aggiunte. La parola d’ordine è light, leggero, perché il fitness è la regola di vita. Il minimalismo detta legge, e così il salume più magro, la bresaola, supera i confini della Lombardia; hanno successo i formaggi spalmabili e lo yogurt; il cibo etnico fa la sua comparsa sulle tavole con la paella; le insalate, compresa quella di riso, acquistano autorità di portata; nelle coppe Martini si servono i gamberetti in salsa rosa, altro che i cocktail di James Bond, mentre per gli amanti della carne la tagliata con rucola e grana è il primo violino nei menu.

GELO DI ACQUA TONICA NEL NOME DELLA NONNA. Alla Peca si suona una musica diversa. Loro una strada nuova l’hanno già imboccata ed è fatta di intuizione ed essenzialità, non certo di imitazione: il vero condimento nei loro piatti è l’armonia. Il Gelo di acqua tonica che servono, per esempio, è ancora in carta dopo vent’anni e passa: acqua tonica ghiacciata, profumo di lime con gin tonic e alghe, presentata con tre tartare, quelle di scampo, gambero rosso e canoce. Forse questo piatto è un retaggio della nonna Maria, che a suo tempo era titolare di un’osteria a Lonigo. Aveva inventato un suo spritz particolare, piuttosto forte: un mix di vino bianco, rosso e dolce, china, Campari e Biancosarti. Ne vendeva tre damigiane al giorno. Accidenti se un tempo si beveva di più, ma la quantità dimostra anche che quell’aperitivo era assai popolare.

Se il vino, come sosteneva Gino Veronelli, è il “canto d’amore della terra al cielo”, c’è un’altra Terra che riscuote successo alla Peca. Va intesa come suolo, naturalmente, e non come pianeta: quindi nel piatto finiscono tuberi, rape e funghi con soia fermentata arrostita, vale a dire la “carne di soia” conosciuta in Indonesia come tempeh. Non è un capriccio da vegani ante litteram, sia chiaro: del resto i Portinari con il loro carattere forte e genuino non hanno mai seguito le mode, bensì la capacità di anticipare i gusti, di annusare il futuro, di intuire dove la cultura ci avrebbe condotto. Spiegano oggi i protagonisti: “La cucina non è solo creatività. È anche una ricerca incessante che riguarda tantissimi fronti. Il benessere prima di tutto, e la sostenibilità per esempio. La tecnica è ciò che ci permettere di ottenere tutto ciò insieme a un equilibrio di sapori che rende un semplice boccone un’esperienza indimenticabile”.

Hanno ragione. Indimenticabile è anche un altro piatto, perché dopo la terra, anche il cielo finisce sulla tavola di Lonigo: quando la Peca festeggia i suoi dieci anni con la prima stella Michelin, il piccione in doppia cottura è finalmente una pietanza apprezzata dai commensali. Non è stato sempre così. Anche il palato degli ospiti andava educato. Proporre una cucina di alto livello in provincia non è stato semplice agli esordi: tant’è vero che il primo piccione presentato da Nicola gli è tornato indietro con sorpresa: si potrebbe dire con una frase ad effetto che gli è stato tirato dietro dal tavolo in cucina. Per fortuna l’ha schivato.

Siccome le stelle, a differenza di quelle di Cronin, non stanno a guardare, così come restano appiccicate al firmamento possono anche cadere. Qualche volta ce ne accorgiamo, qualche altra no. E magari festeggiamo, pure. Ma a Lonigo non è stata certo una festa, quando due anni dopo averla conquistata, la stella Michelin della Peca casca in terra. Tutto per un favore a un collega. Capita, infatti, quando è venerdì sera e il locale è pieno, che un collega da Verona telefoni: “Ho il ristorante stracolmo. C’è una compagnia di sette persone ma non ho proprio posto. Li mando da te”. Rispondi poco convinto “va bene”, anche se magari hai meno posti di lui. Ma c’è il Vinitaly, i locali sono ingorgati e fai quello che puoi. Anche a tavola. Siccome però, come avvertiva José Saramago, “tutta la vita è fatta di coincidenze”, quella compagnia di signori distinti in arrivo da Verona altro non è che lo staff della guida Michelin al completo con in testa il direttore. Che non gradisce per nulla la serata e punisce i fratelli Portinari levando loro la stella dalla guida: “La più grande delusione della mia vita”, confessa oggi Nicola. E ci vorranno tre anni perché, con il nuovo direttore Fausto Arrighi, quella stella ritorni. E non resterà la sola. Sette anni dopo arriverà anche la seconda stella, quella che proietta il locale in una dimensione internazionale.

Solido e liquido di vitello, verdure agre, emulsione di cappero, pomodoro: un secondo piatto che è diventato un classico.

TENACIA, STUDIO E UN’ALTRA STELLA. Merito della tenacia, della preparazione e dello “studio matto e disperatissimo”, tanto per usare una citazione da Vittorio Alfieri, dei fratelli. Convinti che la formazione sia un imperativo categorico, non hanno mai desistito dall’obiettivo di perfezionarsi. Nicola frequenta ed effettua stage nei massimi locali della cucina spagnola, a cominciare da Juan Mari Arzak e dai cuochi baschi, partecipa a congressi, approfondisce. Il risultato sono piatti che rappresentano un altro capitolo della storia del ristorante, a cominciare dai bigoli con le acciughe, alici marinate, pane tostato e gelato di cipolle. La pasta è preparata con la crusca, come si faceva una volta, e il piatto è cucinato sotto vuoto perché si concentrino i sapori: “Ci ho lavorato tantissimo – spiega il cuoco – All’inizio era una comune pasta all’uovo, ma la ruvidità aiuta a ripulire meccanicamente dalla sapidità delle acciughe, dando loro respiro”. Oppure va ricordata la celebre anguilla cotta alla brace con guava, tamarindo e oca (oxalis) tuberosa: pesce, agrumi e ortaggi in equilibrio sferico. I dolci restano un capitolo a parte, con Pierluigi che reinventa ogni giorno dei classici tuttora in carta: basta pensare alla crema bruciata, con crema di vaniglia e zucchero di canna; grazie a un ferro rovente si ottiene l’effetto della creme brulèe. Anche un altro celebre dessert, la mousse di liquirizia con gelatina di limone e menta, è nel menu da quasi trent’anni: “Nasce dal ricordo di quanto ci raccontava papà, che da ragazzo con venti lire riusciva a comprare il biglietto del cinema e una liquirizia che girava e rigirava in mezzo limone che si portava da casa. Attualmente l’ho aggiornato nella forma, aggiungendo una nota croccante che mancava, ma in sostanza il piatto è sempre quello”. Gigi, pasticcere ma anche sommelier, è stato un anticipatore in molti settori: per esempio, è stato un precursore dei vini serviti a calice e nella scelta dei biodinamici. Anche nei dessert ha rivisitato molte sue creazioni: “Ho alleggerito i dessert nello zucchero e nelle parti grasse. Un tempo i dolci erano ridondanti, oggi il gusto è cambiato: le persone cercano la golosità ma non la pesantezza. Gli abbinamenti degli ingredienti? L’ho già in testa, oppure prendono forma sulla base di spunti dalla nostra storia”.

 

Il risotto ai lieviti Bellaguardia è preparato con i lieviti della Cantina Bellaguardia, appunto, che si trova a Montecchio Maggiore e produce solo metodo classico d’alta qualità con uve durella.

IL RISOTTO AI LIEVITI SIMBOLO DELLA “GENERAZIONE DIECI”. Gli ultimi sette anni rappresentano un’ulteriore evoluzione della cucina di Nicola Portinari. È consegnato agli archivi un piatto come il cuore di costata di cervo, avvolta nel radicchio e nel lardo in due differenti cotture, eredità degli anni Novanta. Sono preferiti piatti più soft, magari complessi ma d’effetto più delicato. Del resto, si fanno strada nuove sensibilità, per esempio quelle vegetariane, ma anche intolleranze che non si possono trascurare. Tra quelli della Generazione Dieci spicca il risotto ai lieviti Bellaguardia, nel quale sono utilizzati i lieviti che producono il raffinato durello metodo classico della Cantina Bellaguardia di Montecchio Maggiore. Nel piatto si avverte la nota dolce del mango, l’amaro della mandorla, l’acido della burrata, il sapore dei friggitelli, e quello del pino; si gusta anche la polvere di cappero, il curry e l’olio di semi di zucca. L’avvertenza è di non mescolare, ma di mangiare al cucchiaio. È l’esempio di quella sensazione di eleganza ricca di significati di cui si parlava all’inizio, che è il filo rosso che lega da trent’anni la cucina della Peca.

Un altro piatto storico: la mousse di liquirizia, gelatina al limone verde e menta. I dolci sono la specialità di Pierluigi Portinari, premiato più volte per le sue capacità

L’ultima considerazione riguarda la “Peca” come impresa. Dalle due persone del 1987, trent’anni dopo il ristorante è un’azienda di 14 dipendenti. Assieme ai titolari, l’attuale staff è composto da Fabio Chilese e Marco Faedo (sous chef), Matteo Bressan (sommelier), Ludovica Foà, Martina Gaspari, Daniel Prantil, Fabio Pellizzaro, Lorenzo Orsini, Nicolò Pometti, Davide Zappini, Angelica Baciu. Se la Cantina è un tesoro di Aladino da duemila etichette, cui sovrintende Gigi, la mensa brilla anche per i centrotavola creati dalla moglie Cinzia. Il primo risale a Pasqua del 2010 e finora ne ha prodotti seicento, riassunti in due libri. Si tratta di gustose e ironiche creazioni, che coniugano l’animo artigiano e quello d’artista: “Ero stanca di utilizzare i fiori in mezzo alla tavola – spiega Cinzia – Cercavo un filo logico che unisse la cucina alla sala, un legame con il mondo enogastronomico, dagli utensili ai prodotti. Ho voluto dare loro una seconda vita”. Cinzia usa tutto ciò che si dovrebbe gettare, dalle tazzine rotte ai tappi, dalle caramelle ai piatti sbeccati che si trasformano in nuovi soggetti, magari grotteschi, ma sempre simpatici.

Una curiosità. Come fa un’azienda così particolare, formata da due fratelli, che trascorrono dodici, quattordici, sedici ore al giorno in uno spazio sostanzialmente ristretto, lavorando sempre gomito a gomito? Risponde Nicola pacato: “Praticamente è come se fossimo sposati. Quindi, per usare l’esempio della coppia, anche noi discutiamo, litighiamo magari, poi ci spieghiamo e non si porta rancore. È l’unico sistema per andare avanti, per far proseguire quel progetto che abbiamo iniziato trent’anni fa, che resta più importante delle soddisfazioni personali”. Del resto se gli studenti stagisti che invia a Lonigo “Alma”, la Scuola internazionale di cucina di Gualtiero Marchesi, con sede a Colorno (Parma) hanno dedicato alla Peca quattro tesi di laurea in questi anni significa che il metodo Portinari funziona. In cucina e fuori.