Ho intervistato Andrea Camilleri il 3 settembre 2011, a Venezia, alla vigilia del Premio Campiello che gli avrebbe assegnato il riconoscimento alla carriera. L’avevo incontrato anche a Roma nella primavera di quello stesso anno, in occasione dell’iniziativa “Camilleri incontra i suoi lettori” organizzata dalla Sellerio, alla quale si riferisce la foto della pagina. A Venezia quel 3 settembre, poco prima di compiere 86 anni, Camilleri mi raccontò di aver già scritto l’ultimo Montalbano, quello che è appena uscito (quindici anni dopo averlo completato) da Sellerio con il titolo “Riccardino” e molti altri aneddoti della sua vita. L’intervista che leggete è stata pubblicata il 4 settembre su “Il Giornale di Vicenza”.

Lui, che è stato definito l’unico regista teatrale che potrebbe dare del tu a Pirandello, si secca se lo chiamate maestro: «Mi viene l’orticaria», confessa. Smentisce di essere candidato al Nobel: «Sono uno dei nomi sui quali si divertono a scommettere. Faccio parte di un blocchetto. Tutto qui». Racconta di avere già pronto l’ultimo Montalbano: «L’ho scritto sei anni fa, quando ho compiuto 80 anni. Ma non ci penso proprio a farlo morire». Loda gli industriali veneti: «In un momento in cui tutti pensano che la cultura sia l’ultima ruota del carro, loro ci credono e investono, perché ritengono che la cultura sia trainante nella società. È giusto omaggiarli. E se lo dico io che appartengo a un’altra parrocchia…».

Lucido e brillante, Andrea Camilleri è molto più che uno scrittore: Andrea Tomat, presidente degli industriali veneti e della Fondazione Campiello, lo battezza come “un esempio di made in Italy” letterario: dieci milioni di copie vendute e tradotto in 35 lingue. Questa sera riceve il premio alla carriera dalla Fondazione Campiello: per lui è anche un regalo di compleanno, visto che martedì prossimo 6 settembre compie 86 anni.

Quanti premi ha vinto?

Tutti quelli intitolati a uno scrittore, tranne il Brancati. E molti altri, tra cui il Bancarella e il Mondello. Adesso ho vinto anche il Campiello, che è il più importante. Ormai non mi muovo molto, ma ci tenevo a essere qui.

     Perché?

Intanto per un ricordo: ho dormito una settimana intera dentro La Fenice, quando ero aiuto di Orazio Costa Giovangigli e stavamo allestendo Liolà di Pirandello. A parte questo, la verità è che questo premio mi ha commosso.

     Per quale ragione?

Per due motivi. Perché viene assegnato a un siciliano nell’anno del 150˚dell’Unità d’Italia. E io mi sono sempre definito un italiano nato in Sicilia. Il secondo motivo è che dovevo rendere omaggio a degli industriali i quali pensano che la cultura sia trainante nella società, mentre in Italia è considerata l’ultima ruota del carro. Hanno un grande merito. Mica perché hanno dato il premio a me: penso ai cinque scrittori che arrivano alla finale.

    Non ci sono troppi premi letterari?

Sì, ce ne sono tantissimi, qualcuno anche a pagamento. È come i libri: se ne pubblicano tantissimi, ma quelli buoni sono pochi.

     Il più curioso premio che ha vinto?

Da una giuria di un’isola nel nord della Francia riunita su un peschereccio. Hanno premiato Il birraio di Preston con questa motivazione: “È un buon libro”. Geniale.

     È vero che è candidato al Nobel?

Non l’hanno dato a grandissimi come Mario Luzi o Philip Roth e lo danno a me? Via… Forse è proprio per questo. No, non sono candidato a nulla. Sono solo gli scommettitori che fanno il mio nome per far giocare le persone.

     Sarebbe possibile scrivere un libro sull’attuale situazione in Italia?

Nessuno lo può scrivere. La fantasia bisogna applicarla all’economia, perché ci vuole un colpo d’ala. Non basta una pezza, ci vuole un vestito nuovo. Di sicuro non bastano le idee che vengono smentite la mattina dopo.

   È vero che ha già pronti tre libri su Montalbano?

Vero. Già consegnati anni fa. L’ultimo Montalbano l’ho scritto sei anni fa, quando ho compiuto ottant’anni e l’ho consegnato a Elvira Sellerio. Quando mi sarò stufato dirò: “Pubblicatelo”. Ma per ora non ho intenzione di far morire Montalbano.

   Un’anticipazione su questo Montalbano?

È un mega romanzo. Il commissario viene svegliato da una telefonata perché è stato scoperto un omicidio. Sul luogo del delitto coglie un dialogo tra paesani, in cui si fa riferimento al «Montalbano della televisione». E lui sente di avere un alter ego televisivo…

   A proposito di televisione. Lei ha prodotto per la Rai negli anni Sessanta sia il tenente Sheridan sia il Maigret televisivo. Chi le è più simpatico fra i suoi tre commissari?

Non c’è dubbio, Jules Maigret. Montalbano non mi è simpatico. Oltretutto a Maigret devo anche la mia tecnica di scrittore, che è la stessa di Simenon.

    Vale a dire?

Ero un produttore piuttosto puntiglioso e osservavo Diego Fabbri come lavorava alla sceneggiatura: smontava, destrutturava e rimontava le pagine. Ho imparato da lì e messo da parte, mai immaginando che mi sarei messo a scrivere romanzi. Quando è successo ho tirato fuori quanto avevo imparato.

    C’è qualche differenza tra i due commissari?

Certo. Montalbano non si mette mai nei panni del morto, come invece fa Maigret. E poi Maigret è già sposato e sua moglie cucina benissimo. Montalbano non è sposato e Livia non è un granché in cucina.

   Già, perché non li fa sposare?

Per quale motivo, per vivere la «noia quotidiana» come la definiva Eduardo?

   Cosa accomuna in vece i due commissari?

Non mi è mai piaciuto il giallo hard boiled anche se Chandler è Chandler, niente da dire. Ma a me interessa l’indagine intellettuale che può fare la nostra polizia: mi piacciono queste persone normali, che potresti anche invitare a cena, ma che hanno l’istinto della caccia.